La Sindrome da dolore miofasciale è una malattia caratterizzata da dolore cronico che interessa nello specifico i muscoli ed i tendini. Nella sindrome miofasciale, la pressione su punti sensibili dei muscoli (definiti punti trigger) provoca tipicamente dolore in parti apparentemente non collegate del corpo: questa condizione clinica si chiama dolore riferito, ed è una condizione che si può verificare a seguito di fenomeni di usura muscolare.

Cosa provoca la sindrome miofasciale?
Movimenti ripetitivi al lavoro o nello sport possono causare tensione muscolare e determinare stress fisico, una risposta algica del muscolo: è fisiologico che ciò possa accadere, non è giustificabile nella sindrome mio fasciale. Un fattore che infatti accomuna coloro che soffrono di questa sindrome è che non vi è, nella loro storia anamnestica, una usura tale da giustificare il dolore per come loro lo riferiscono. Il dolore da tensione muscolare è dunque una condizione transitoria e giustificata, il disagio associato alla sindrome del dolore miofasciale è invece una condizione persistente che se non trattata tende a peggiorare, il solo riposo funzionale infatti in questi pazienti non basta.

Segni e sintomi della sindrome del dolore miofasciale possono includere:

  • dolore muscolare anche profondo, al tatto o all’esercizio
  • dolore che persiste nonostante il riposo o addirittura peggiora con il riposo stesso
  • sensazione di muscolo teso, nodoso, contratto
  • insonnia dovuta alla mialgia

Non sono state identificate ben precise cause per la sindrome miofasciale, che sembra prediligere il sesso femminile, tuttavia sono stati identificati dei fattori di rischio correlabili a questa condizione clinica:

  • Pregressi traumi muscolari sottovalutati o mal curati in prossimità di trigger points
  • Stress e ansia,  le persone che soffrono di stress e ansia hanno maggiori  probabilità di sviluppare questa sindrome, così come i soggetti depressi.
  • Menopausa, si pensa che lo scompenso ormonale conseguente alla menopausa, possa essere un fattore determinante in alcuni casi, nella formazione della malattia.
  • Sedentarietà, è palese che i soggetti sedentari sono più a rischio di questa sindrome rispetto ai soggetti allenati.
  • Uso di farmaci, è notorio che vi sono farmaci che al di là del loro effetto terapeutico valido, possano causare dolori muscolari e aumentare il rischio della malattia: si pensi ai farmaci per la ipercolesterolemia, le statine, o a farmaci usati in malattie degenerative neuromuscolari o psichiatriche.

Quali sono le conseguenze di una sindrome miofasciale?
La malattia se mal curata non mette a rischio la vita del paziente, ma la qualità della sua vita diviene terribile e, la sensazione di invalidità e di impotenza funzionale, insieme alla insonnia ed al dolore recidivante, possono compromettere seriamente la qualità di vita del paziente e di chi gli sta attorno.

Come si diagnostica la sindrome miofasciale?
La diagnosi passa attraverso l’ esclusione di lesioni organiche o di malattie reumatiche o metaboliche; si devono dunque escludere polimialgia, tiroiditi, miositi, tendiniti, eccetera, attraverso diversi esami:

  • ecografie muscolari
  • emocromo con marker di flogosi
  • dosaggio di autoanticorpi
  • anamnesi, specie quella farmacologica

Come si cura la sindrome miofasciale?
Posta la diagnosi, il trattamento ottimale della sindrome del dolore miofasciale prevede un approccio versatile, che può includere:

  • psicoeducazione del paziente.
  • riduzione dello stress.
  • fisioterapia, macchinari come la tecarterapia possono dare notevole sollievo.
  • stretching e programmi di regolare esercizio, in particolare forme di ginnastica calistenica, come la ginnastica posturale, il pilates, lo yoga.. eccetera.
  • agopuntura.
  • alimentazione regolare, ricca di antiossidanti tipicamente contenuti in frutta e verdura.
  • uso di farmaci ipnoinducenti, per avere una buona qualità del sonno.
  • Psicoterapia con metodo EMDR.

Se il dolore acuto è la fisiologica risposta ad un danno/lesione di un distretto del corpo (trauma, infiammazione, ecc.), che tende ad estinguersi una volta guarita o risolta la patologia responsabile, il dolore cronico, invece, è un dolore patologico che dura da almeno sei mesi e/o che tende a persistere anche dopo la eventuale risoluzione della patologia originaria. Il dolore cronico non è soltanto un dolore che dura nel tempo ma, a differenza del dolore acuto, tende a diventare una vera e propria malattia invalidante, che investe tutta la persona, le sue funzioni cognitive ed emotive e la sua vita di relazione. L’impatto del dolore cronico sulla qualità di vita può essere rilevante. Spesso la persona riferisce di sentirsi sola con il suo dolore e non compresa da parte di chi minimizza e sembra non comprendere la persistenza dello stato di sofferenza, alla luce dell’assenza di una causa organica. Tuttavia, il dolore di un individuo che soffre di questa patologia è reale e non va delegittimato. La persona non si “inventa” il dolore, lo percepisce veramente.

Perché la psicoterapia Emdr?
La percezione del dolore è un’esperienza soggettiva che viene processata da circuiti neurali nel nostro cervello e dal sistema nervoso centrale. Il dolore cronico è in grado di produrre dei cambiamenti fisiologici e strutturali creando uno squilibrio nel nostro cervello e mantenendo attiva e/o intensa la nostra percezione del dolore, anche quando la causa del dolore è superata.
Tra i diversi approcci che il paziente può sperimentare, è disponibile anche la tecnica EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing, ovvero “desensibilizzazione e riprocessazione attraverso i movimenti oculari”), una metodologia nata per il trattamento del disturbo post-traumatico da stress. Questa metodologia, sviluppatasi nel corso degli anni, ora segue protocolli validati a livello internazionale e viene utilizzata con successo per trattare tutti i traumi che il paziente può sperimentare nel corso della sua vita.

L’EMDR è usato fondamentalmente per accedere, neutralizzare e portare a una risoluzione adattiva i ricordi di esperienze traumatiche, che stanno alla base di disturbi psicologici attuali del paziente. Queste esperienze traumatiche possono consistere in:

  • Piccoli/grandi traumi subiti nell’età dello sviluppo
  • Eventi stressanti nell’ambito delle esperienze comuni (lutto, malattia cronica, perdite finanziarie, conflitti coniugali, cambiamenti)
  • Eventi stressanti al di fuori dell’esperienza umana consueta quali disastri naturali (terremoti, inondazioni) o disastri provocati dall’uomo (incidenti gravi, torture, violenza).

Questo approccio, necessita di una valutazione iniziale approfondita del dolore cronico in risposta alla componente emotiva e cognitiva, che si associa alla percezione fisica del dolore e alla condizione di stress che ne deriva. Inoltre, il dolore fisico si accompagna inevitabilmente a una sofferenza emotiva e da questa viene influenzato. Le emozioni negative e il ricordo traumatico dell’esperienza dolorosa, tendono a mantenere attiva la sensazione di dolore e a favorire la comparsa di episodi acuti.

L’EMDR è un approccio complesso ma ben strutturato che può essere integrato nei programmi terapeutici aumentandone l’efficacia. Considera tutti gli aspetti di una esperienza stressante o traumatica, sia quelli cognitivi ed emotivi che quelli comportamentali e neurofisiologici. Questa metodologia utilizza i movimenti oculari o altre forme di stimolazione, per ristabilire l’equilibrio eccitatorio/inibitorio, provocando così una migliore comunicazione tra gli emisferi cerebrali. Si basa su un processo neurofisiologico naturale, legato all’elaborazione accelerata dell’informazione”

Fonte: EMDR Italia, per maggiori informazioni collegarsi a www.emdritalia.it